I grafici definitivi per comprendere come e quando i conti pubblici italiani sono migliorati o peggiorati.
(aggiornato con i dati 2022)
Partiamo subito con un grafico che rappresenta le entrate e le spese con e senza gli interessi da pagare sul debito pubblico in valori assoluti. Si tratta di valori reali, quindi è stato depurato l’effetto dell’inflazione utilizzando un indice deflatore (vedi fonti).
Questo grafico è sicuramente interessante ma, come già detto in altre occasioni, i valori rappresentati sono influenzati dall’andamento dell’economia e questo ne riduce la significatività; se il PIL varia di una certa percentuale, è normale aspettarsi che le entrate dello Stato abbiano variazioni simili, e questo influenza anche le altre variabili. Per evidenziare le variazioni autonome è quindi necessario calcolare i valori in rapporto al PIL. In un tale contesto se una serie di valori risulta piatta, significa che segue esattamente l’andamento del PIL; se sale significa che cresce più del PIL; se scende, meno.
Il grafico con i valori assoluti è bene quindi che sia integrato con quello delle percentuali sul PIL. Come avete già visto, è stata aggiunta ad ulteriore scopo informativo la serie di valori relativa al tasso di interesse reale sui titoli di stato BOT a 12 mesi. Ecco il grafico:
Il significato delle variabili Entrate e Spese dovrebbe essere chiaro. La distanza tra la linea rossa delle spese e quella blu delle entrate rappresenta il deficit dello Stato (ovvero soldi che mancano per andare in pareggio). Se la linea blu fosse sopra la rossa avremmo un deficit positivo, ovvero un surplus.
La distanza tra la linea rossa delle spese e la linea gialla delle spese senza interessi mi definisce ovviamente il valore degli interessi stessi.
La distanza tra la linea gialla delle spese senza interessi e la linea blu delle entrate indica il cosiddetto avanzo primario (se la blu è sopra la gialla, altrimenti è un disavanzo).
Risulta evidente come subito nel 1981 ci sia stato un forte e deleterio incremento della spesa pubblica al netto degli interessi che è andato tutto in deficit, visto che le entrate sono rimaste ferme e in più erano già in disavanzo primario. Tutto ciò in una fase nella quale il peso degli interessi da pagare sul debito era già significativo (più alto di quello di oggi) a causa del fatto che anche durante gli anni ‘70 vennero realizzati notevoli disavanzi, ancora più alti di quelli anni ‘80 se si considera la componente primaria. A differenza degli anni ‘70, però, a partire dal 1981 i tassi reali sui titoli di Stato erano risaliti notevolmente a causa del calo repentino dell’inflazione e della politica monetaria sui tassi ufficiali (si consiglia di leggere l’articolo relativo al grafico sull’inflazione e tassi di interesse per capire la questione).
Tale situazione ha fatto crescere molto gli interessi da pagare e quindi la spesa complessiva, tanto da costringere lo Stato ad una impennata delle entrate nel 1982-83 per riuscire a bloccare l’incremento del deficit. Il problema è che successivamente invece di proseguire verso un risanamento si è deciso incredibilmente di ridurre le entrate, che sono rimaste sotto al livello del 1983 per quattro anni. Nel frattempo la spesa senza interessi ha continuato a crescere, seppur meno del passato. In questo modo l’Italia è rimasta, come si vede, in disavanzo primario fino al 1991 nonostante la crescita del tasso di interesse reale sui titoli pubblici.
Va detto che la crescita dei tassi di interesse reali non riguarda solo l’incremento del debito che deriva dai nuovi deficit, ma riguarda anche tutti i titoli del vecchio debito che scadono e devono essere rinnovati. Questo aggrava notevolmente la crescita della quota interessi. Non è un aspetto da poco se si considera che negli ultimi tempi i titoli in scadenza ogni anno in Italia si aggirano su un valore di 3-400 miliardi.
E’ evidente come per contenere la nuova crescita del deficit (che in rapporto al PIL raggiunge il picco nel 1985) l’Italia sia costretta di nuovo ad incrementare decisamente le entrate a partire dal 1988, fino ad arrivare ad un avanzo primario nel 1992.
Il 1993 fu pero l’anno della svolta. Con la nomina di Ciampi a Presidente del Consiglio finiva di fatto la cosiddetta Prima Repubblica. Difficile non associare questo passaggio con l’inizio della fase discendente del tasso reale sui BOT che consentì di rendere meno gravoso il pagamento degli interessi sul debito pubblico.
L’alleggerimento dei tassi consentì questa volta di avviare una seria fase di risanamento. Le spese al netto degli interessi per la prima volta iniziarono a calare in modo continuato. In questa fase si è raggiunto il massimo storico dell’avanzo primario (nel 1997).
A partire dal 2001 si è avuta una nuova ripresa della spesa pubblica al netto degli interessi associata ad un calo delle entrate. Il deficit è tornato ad aumentare anche se lontano dai livelli visti negli anni ‘80 e primi ‘90, questo grazie anche ai tassi reali più bassi sul debito.
Nel 2007 c’è stato un temporaneo miglioramento ma due anni più tardi, nel 2009, è arrivata la crisi economica (non per responsabilità italiane) e inevitabilmente è tornato a crescere il deficit, su livelli che non si vedevano dai tempi del risanamento. Tale contesto ha indebolito la solidità finanziaria dell’Italia e favorito nel 2011 la crescita dei tassi sui titoli pubblici (anche a causa di processi speculativi) con la cosiddetta crisi dello spread (ricordiamo che il debito non ha praticamente mai smesso di crescere essendo l’Italia sempre in deficit). Anche la situazione della bilancia dei pagamenti ha probabilmente indebolito la solidità dell’Italia.
La crisi dello spread si è trasformata nei due anni successivi nella seconda crisi economica. Questa volta, però, per evitare nuovi problemi con i tassi sul debito pubblico, c’è stato un maggiore rigore nella tenuta dei conti e il deficit si è addirittura ridotto.
Molte persone, durante la crisi dello spread e successiva crisi economica, paventavano il concreto rischio di un default dell’Italia. In effetti dal 2010 al 2012, sia per il maggiore deficit, sia per i tassi più elevati, gli interessi sono cresciuti di circa 14,3 miliardi in termini reali. Non si tratta di una cifra che da sola è in grado di mandare in default un paese come l’Italia (e su questo è stato fatto troppo allarmismo), ma può diventare un problema se una tale tendenza permane per diversi anni. In questo caso la crescita degli interessi è rientrata perché si è intervenuti dopo poco tempo per ridurre il deficit e rassicurare i mercati. C’è da dire che, rispetto al passato, il fatto di avere oggi l’euro come moneta rende più difficile una crescita incontrollata dei tassi di interesse sui titoli pubblici.
Dopo le due crisi anzidette abbiamo avuto una fase abbastanza stabile, con una leggera decrescita sia del deficit che degli interessi, grazie anche a tassi reali sui titoli pubblici che nel caso dei BOT sono scesi sotto lo zero.
Purtroppo, come si vede, con la crisi covid-19 del 2020 i conti sono peggiorati nuovamente con livelli di spesa mai visti prima nel periodo considerato. Di questa fase sono interessanti due aspetti. Da una parte la spesa pubblica nei valori assoluti reali è cresciuta ad un ritmo incredibile, non solo nel 2020 ma anche nei due anni successivi. In questo modo la spesa in rapporto al PIL dopo il balzo enorme nel 2020 ha continuato a rimanere su livelli elevati, anche quando il PIL si è ripreso. Dall’altra parte bisogna notare che anche le entrate pubbliche sono aumentate seguendo una tendenza iniziata nel 2019 grazie ad interventi come la fatturazione elettronica (introdotta nella legislatura precedente) che hanno ridotto l’evasione fiscale. La crescita delle entrate non è comunque riuscita a compensare l’enorme passo in avanti della spesa del 2020 dal quale, come detto, non c’è ancora stato un ritorno a livelli più simili ai precedenti.
La spesa pubblica nel 2022 è stata di 1084,9 miliardi, pari al 56,8% del PIL.
La spesa senza interessi nel 2022 è stata di 1001,7 miliardi, pari al 52,5% del PIL.
Le entrate pubbliche nel 2022 sono state di 931,4 miliardi, pari al 48,8% del PIL.
Il deficit (entrate meno spese), rappresentando l’indebitamento maturato nell’anno, dovrebbe essere il valore che va ad incrementare il debito pubblico. In realtà va detto che la contabilità del deficit è basata sul principio della competenza economica, ovvero, costi e ricavi per lo Stato sono registrati nel momento in cui si realizzano, non nel momento in cui vengono concretamente pagati e incassati (principio di cassa). La contabilità che porta a determinare gli incrementi del debito pubblico, invece, per forza di cose, è basata sul principio di cassa. Ciò significa che deficit e incremento del debito non corrispondono perfettamente, anzi, a seconda dei casi ci possono essere differenze significative.
Ad esempio, proprio nel 2022 si può notare come il deficit sia ancora molto elevato (153,4 miliardi) mentre il debito pubblico è cresciuto “solo” di 84,4 miliardi (in questo caso si considera l’incremento nominale del debito perché si confrontano dati di stock con dati di flusso e si tratta dell’ultimo anno). Tale particolare situazione deriva dai costi dei bonus edilizi che da un punto di vista di contabilità del deficit sono stati attribuiti agli anni nei quali sono stati realizzati, mentre gli effetti di cassa saranno distribuiti su più anni (compresi gli effetti sul debito).
Per avere una visione più chiara delle variabili deficit, interessi e avanzo primario che sono state citate più volte nel commento, è possibile rappresentarle direttamente in un grafico (in valori assoluti reali e in rapporto al PIL):
Si notano facilmente i punti salienti di quanto descritto in precedenza.
Il vistoso peggioramento del deficit del 1981 e il picco massimo raggiunto nel 1985 (ben il -12% del PIL). La crescita degli interessi e il picco raggiunto nel 1993 (il 12,2%). La fase di risanamento con l’avanzo primario massimo del 1997 (6,2%) e il deficit che raggiunge il livello minimo nel 2007 (-1,3%).
Da evidenziare che il mantenimento quasi costante di un avanzo primario positivo, a volte anche considerevole, dai primi anni ’90, deriva proprio dalla necessità di pagare (almeno in parte) gli interessi sul debito.
Come detto, dopo la crisi del 2012-13 il deficit si stava lentamente riducendo, grazie all’andamento calante degli interessi e a un avanzo primario più o meno stabile, poi è arrivata la crisi covid-19 e sono tornati dei disavanzi primari davvero notevoli a peggiorare nuovamente i conti pubblici. Da notare che anche gli interessi dal 2020 sono tornati un po’ a salire, ma solo a causa dell’incremento del debito, non per i tassi di interesse che, come si vede dai BOT, grazie alla crescita dell’inflazione in termini reali sono negativi e ai minimi dal 1980. Quando l’inflazione invertirà la tendenza i tassi di interesse torneranno a salire e a quel punto si rischia di vedere un peggioramento della spesa per interessi ancora maggiore. Per contenere questo effetto il debito pubblico in termini reali dovrebbe calare fin tanto che l’inflazione cresce ed è elevata.
Il disavanzo primario nel 2022 è stato di 70,2 miliardi, pari al 3,7% del PIL.
Gli interessi pagati sul debito nel 2022 sono stati 83,2 miliardi, pari al 4,4% del PIL.
Il deficit nel 2022 è stato di 153,4 miliardi, pari al 8,0% del PIL.
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Per farsi un’idea sull’andamento del deficit e del debito si consiglia di vedere anche il grafico del confronto con altri paesi.
Chi è interessato può anche vedere i grafici della spesa pubblica per settore d’impiego e delle entrate fiscali per tipo di imposta.
Oltre ai tassi reali sui BOT a 12 mesi è possibile osservare i grafici con il tasso reale medio su tutto il debito pubblico.
Fonti
I dati sui conti pubblici fino al 1994 sono tratti dal sito web Base dati statistica della Banca d’Italia sezione “Tematiche; Statistiche di finanza pubblica nei paesi dell’Unione Europea” selezionando le voci “Totale delle entrate; Totale delle spese; Totale spese al netto degli interessi; Indebitamento netto o accreditamento netto; Indebitamento netto o accreditamento netto primario; Spesa per interessi”.
I dati di origine sono espressi in percentuali sul PIL. Da queste si è calcolato il PIL nominale e reale in valori assoluti. Fare riferimento al grafico sul PIL per le fonti dei relativi dati.
Dal 1995 in poi i dati sono tratti dal sito Dati ISTAT sezione “Conti nazionali; Conti aggregati economici delle Pubbliche amministrazioni; Conto annuale; Conto economico per sottosettore”.
Per ottenere i valori reali è stato utilizzato il deflatore del PIL tratto dal sito AMECO sezione “Domestic product; Gross domestic product; Price deflator (PVGD)” per i dati fino al 1994. Per gli anni successivi l’indice è stato calcolato implicitamente dividendo la serie dei valori del PIL nominale per quella reale con dati tratti dal sito ISTAT sezione “Conti nazionali; Conti e aggregati economici nazionali annuali; Principali aggregati del Prodotto interno lordo”. L’anno di riferimento dell’indice deflatore è stato spostato dal 2015 al 2022.
Per i dati sui tassi reali dei BOT fare riferimento alle fonti indicate nel grafico su inflazione, tassi di interesse e di cambio. Il tasso reale è stato ottenuto con la formula: (Interesse-Inflazione)/(1+Inflazione), dove il tasso di inflazione in questo caso fa riferimento all’indice deflatore del PIL detto in precedenza.