Sfatiamo un po’ di miti positivi sul nucleare

Ogni tot anni in Italia tende ciclicamente a ripresentarsi la questione dell’utilizzo dell’energia nucleare, con frotte di accaniti sostenitori pronti a tesserne le lodi. Vediamo quanto c’è di vero in alcuni dei più comuni argomenti portati a favore del nucleare.


(aggiornata la parte 3 e aggiunta la parte 5)

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1. Il nucleare è economico

E’ una convinzione abbastanza diffusa che il nucleare sia una fonte di produzione di energia particolarmente economica. Ma è davvero così?

Per stimare i costi di generazione delle varie fonti viene utilizzato il cosiddetto LCOE (levelized cost of energy). Si tratta in pratica di creare un piano finanziario relativo al ciclo di vita dell’impianto, o ad un periodo di riferimento, nel quale vengono indicate anno per anno da una parte le uscite di cassa (dal costo iniziale dell’impianto ai costi operativi annuali), dall’altra la produzione di energia dell’impianto. Tutti questi valori vengono poi attualizzati in base ad un tasso medio di rendimento sul capitale. La sommatoria dei costi attualizzati diviso la sommatoria della produzione attualizzata da appunto come risultato il valore LCOE, che è in pratica il costo medio dell’energia prodotta considerando la remunerazione del capitale investito. Per chi vuole approfondire l’argomento di consiglia di leggere l’articolo sul capire e calcolare il valore LCOE.

Sulla rete è possibile trovare alcune fonti imparziali e attendibili che stimano i costi delle varie fonti in questa maniera. Ad esempio abbiamo le stime dell’U.S. Energy Information Administration (EIA), un ente governativo degli Stati Uniti. Questo tipo di confronti tendono ad enfatizzare il ruolo delle diverse strutture dei costi delle fonti di produzione, utilizzando invece un medesimo valore per il tasso di rendimento e il periodo di rientro dell’investimento (dati di ingresso meno certi rispetto ai costi). Nel caso dell’EIA viene utilizzato un tasso reale medio del 6,2% e un periodo di rientro di 30 anni. Ovviamente si tratta di uno studio basato sul mercato statunitense. I risultati relativi all’Annual energy outlook 2022 sono riportati nella “tabella 1b” seguente:

LCOE EIA 2022Come potete notare si tratta di una stima fatta su una previsione a breve termine (5 anni). Considerando che per i grandi impianti dal primo progetto all’entrata in funzione possono passare diversi anni, in pratica si tratta di una stima del presente.

E’ evidente come il nucleare “avanzato” (ovvero gli ultimi reattori di terza+ generazione) con un costo di 88,24 $/MWh sia tutt’altro che economico rispetto alle altri fonti, e bisogna pure considerare che in questa stima è stato trattato bene. Infatti come costo iniziale d’impianto, indicato nel documento degli assunti (assumptions in inglese) nella tabella 3, è stato considerato quello “di progetto” (7,030 $/kW al momento in cui scrivo) e non quelli effettivi riscontrati nella realtà. I due reattori da 1.100 MW in costruzione negli USA stanno facendo registrare un costo di 28,5 miliardi di dollari (pari a 12.954 $/kW). Anche il reattore EPR da 1.600 MW in costruzione in Francia sta facendo registrare un costo di 19,1 miliardi di euro (pari a circa 13.200 $/kW). Come si vede i due costi specifici sono simili e più elevati di circa l’85% rispetto a quelli di progetto considerati dall’EIA.

Considerando che nelle centrali nucleari i costi sono concentrati nell’investimento iniziale d’impianto, usando i valori effettivi riscontrati nella realtà, quindi, la stima LCOE dell’EIA risulterebbe incrementata in modo significativo. Facendo qualche prova con il modello di calcolo del valore LCOE scaricabile dal citato articolo di approfondimento, risulta che aggiornando il costo di investimento iniziale (13.000 $/kW) e lasciando invariati i costi operativi, il valore LCOE finale per i due impianti considerati arriva a circa 140 $/MWh.

Qualcuno potrebbe obiettare che utilizzare un periodo di rientro dell’investimento di 30 anni penalizza il nucleare, le cui moderne centrali sono progettate per durare anche 60 anni. In realtà l’incidenza di questo aspetto è modesta. Infatti se prendiamo un costo iniziale d’impianto e lo dividiamo per una produzione totale crescente nel tempo quello che otteniamo è un andamento a iperbole, con un costo unitario che all’inizio cala rapidamente per poi tendere a stabilizzarsi. Il processo di attualizzazione utilizzato nel calcolo LCOE, riducendo nel tempo il valore della produzione, amplifica ancora di più la tendenza della curva a stabilizzarsi. Il risultato è che alla fine la differenza di costo tra 30 e 60 anni non è molta. Ad esempio, con i dati precedenti si può stimare una riduzione di circa il 13%. Ma bisogna anche considerare che per durate d’impianto così lunghe ad un certo punto sono necessariamente previsti costi straordinari di manutenzione per sostituire tutto ciò che all’interno di una centrale è soggetto ad usura o obsolescenza. Quindi la riduzione è sicuramente inferiore al valore detto.

Altra fonte di stime LCOE a cui si può far riferimento sono quelle di Lazard, un’azienda di consulenze finanziarie. In questo caso il modello prevede un tasso di rendimento medio del 7,7% e un periodo di rientro di 20 anni. I risultati relativi all’edizione 2021, sempre per il mercato statunitense, sono i seguenti:

LCOE Lazard 2021Come si vede in questo caso il costo del nucleare (131-204 $/MWh) risulta anche ben maggiore rispetto al caso precedente, sia perché vengono utilizzati dei costi di impianto iniziali più reali (dai 7.800 ai 12.800 $/kW, vedi report completo a pag.11), sia per il maggior tasso, sia per il tempo di rientro dell’investimento più breve (in questo caso per una durata di 60 anni si può stimare una riduzione del costo di circa il 19%, sempre tenendo conto di quanto detto in precedenza).

Infine sul costo del nucleare si possono trovare anche degli esempi concreti. Nel Regno Unito diversi anni fa hanno iniziato la costruzione di una nuova centrale nucleare (Hinkley Point C), peraltro lo stesso identico tipo che era previsto si costruisse in Italia nel progetto del 2011, poi bocciato dal referendum. Essendo per l’appunto il nucleare una fonte costosa è stato necessario definire un sistema di sussidi pubblici per rendere fattibile il progetto. Nel Regno Unito quando si tratta di soldi pubblici hanno sempre un approccio orientato alla trasparenza e così hanno deciso di definire i sussidi in modo chiaro direttamente sul prezzo dell’energia prodotta. In questo modo è previsto che la centrale di Hinkley Point C riceva un prezzo minimo garantito dallo Stato (strike price) di 92,5 sterline/MWh, con un possibile sconto a 89,5 sterline/MWh. Prezzo indicizzato all’inflazione a partire dal 2012 e da erogare per ben 35 anni dall’inizio della produzione della centrale.

La centrale Hinkley Point C non è ancora pronta, ma quanto sarebbe il prezzo oggi con l’adeguamento all’inflazione? Considerando il prezzo “scontato” di 89,5 sterline, sarebbe di 106,12 sterline/MWh (vedi qui), pari al cambio attuale a circa 121 $/MWh e 121 €/MWh (i tassi di cambio ultimamente sono molto instabili e il valore potrebbe variare un po’; fino a poco tempo fa i valori erano più elevati). Ovviamente il prezzo continuerà a crescere in futuro seguendo l’inflazione.

Tale prezzo erogato su 35 anni dovrebbe essere quello che garantisce all’azienda proprietaria il ritorno di buona parte dell’investimento e rappresenta quindi un buon parametro di riferimento, come visto per il valore LCOE.

Quindi, riepilogando, abbiamo i 121 $/MWh appena visti con il caso concreto di Hinkley Point, abbiamo le stime Lazard realizzate su un periodo più breve (20 anni) che riportano un valore intermedio di 167 $/MWh e infine abbiamo le stime EIA che sono più basse ma come detto si basano su dati d’impianto teorici mentre considerando dati più realistici si ottiene un valore di circa 140 $/MWh. Come si vede c’è una certa coerenza nei valori e dimostrano che attualmente il nucleare non è una tecnologia economica, anzi, è tra le più costose disponibili.

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2. Il nucleare è pulito

Altro argomento molto utilizzato dagli attivisti pro nucleare è che tale fonte sarebbe “pulita”, ovvero non produrrebbe sostanze inquinanti e pericolose (sempre avendo come riferimento il sito di produzione dell’energia e non tutte le attività a monte). In realtà tutti sanno che questo argomento è debole perché le centrali nucleari producono un rifiuto altamente pericoloso: le cosiddette scorie radioattive, ovvero il combustibile esausto dei reattori.

Seppur prodotto in quantità ridotte in rapporto all’energia generata, il combustibile esausto appena uscito dal reattore è radioattivo in modo abominevole. Si stima che la sua radioattività sia 4 milioni di volte superiore a quella dell’uranio naturale, ovvero dell’uranio così come lo si trova in natura (vedi quanto scritto qui).

Data la sua enorme radioattività, il combustibile appena estratto dal reattore viene subito posto in una piscina posizionata nelle vicinanze (reactor pool) per essere raffreddato e per schermare le radiazioni (spostarlo in luoghi più lontani sarebbe problematico e pericoloso). Il raffreddamento deve essere di tipo attivo, ovvero l’acqua della piscina ha bisogno di essere raffreddata con qualche sistema. Se tale raffreddamento viene meno, possono accadere grossi guai (le famose piscine di Fukushima che avevano destato tante preoccupazioni erano proprio le reactor pool).

Per fortuna l’abnorme radioattività del combustibile esausto tende a ridursi rapidamente nei primi tempi (rimanendo comunque molto elevata in termini assoluti). In questo modo dopo qualche anno (in genere da 1 a 3, a seconda delle procedure) è possibile spostare le scorie in una piscina più grande di stoccaggio provvisorio (sempre raffreddata attivamente), in grado di raccogliere le scorie prodotte nell’arco di molti anni (anche per l’intera vita della centrale). Tali piscine, definite in genere interim pool storage, possono trovarsi all’interno di ogni centrale nucleare (in un edificio più lontano dal reattore) oppure in altri luoghi che forniscono un servizio di stoccaggio specializzato e che spesso gestiscono i rifiuti di più centrali.

Tale stoccaggio viene definito “provvisorio” perché in teoria lo stoccaggio definitivo, dopo molti anni, di ogni scoria radioattiva prodotta dalle centrali dovrebbe avvenire in un deposito geologico profondo (deep geological repository). In realtà, però, allo stato attuale, solo la Finlandia ha costruito questo tipo di deposito. In tutto il resto del mondo le piscine di stoccaggio provvisorio funzionano di fatto come stoccaggi definitivi, senza un termine certo. Al limite, in alcuni casi, dopo molti anni, il combustibile viene posto in depositi “a secco”, senza l’uso dell’acqua, in appositi contenitori posti sempre presso le centrali nucleari o presso siti specializzati, ma la sostanza non cambia.

In definitiva, il problema di trovare un posto sicuro e inaccessibile per le scorie radioattive non è stato ancora risolto praticamente da nessuno. In tutto il mondo le scorie prodotte in 60 anni di funzionamento da tutte le centrali nucleari commerciali si stanno accumulando presso normali siti di stoccaggio.

Sulle modalità descritte di gestione delle scorie vedere quanto riportato qui.

Per finire vale la pena anche sfatare il mito che le centrali nucleari, scorie a parte, non produrrebbero all’esterno nessun altro tipo di materiale radioattivo. Non è così; qualsiasi centrale nucleare nel suo normale funzionamento emette all’esterno delle radiazioni, principalmente sotto forma di trizio. Ovviamente tali emissioni sono monitorate ed avvengono nel rispetto dei limiti previsti dalla legge, come avviene per qualsiasi impianto industriale che emette sostanze inquinanti. Ad esempio, negli Stati Uniti, come si può leggere qui, diverse centrali nucleari sono state segnalate per avere una concentrazione di trizio nelle acque sotterranee del terreno su cui sorge l’impianto maggiore del valore standard previsto per l’acqua potabile, spesso anche notevolmente maggiore. Questa situazione non viene considerata un’infrazione della legge perché nessuno ovviamente va a scavare pozzi di acqua potabile intorno alle centrali nucleari, quindi il problema non si pone, ma il fatto rimane.

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2.1. Le scorie radioattive possono essere “riciclate”

Spesso per sminuire il problema delle scorie gli attivisti pro atomo dicono che oggi, usando moderne tecnologie e reattori di ultima generazione, è possibile riciclare tutte o quasi le scorie, risolvendo quindi il problema della loro pericolosità. E’ un’affermazione che in realtà nasconde un “trucco”.

Per capire la faccenda bisogna conoscere, almeno a livello concettuale, come funziona un reattore a fissione nucleare.

Come si sa il combustibile usato nei reattori è composto in genere da uranio, un elemento chimico “pesante”, ovvero con atomi di grandi dimensioni che proprio per questo motivo tendono ad essere instabili e quindi radioattivi. L’uranio che si trova in natura (uranio naturale) si presenta sostanzialmente in due forme di isotopi (ovvero stesso elemento chimico ma con numero di neutroni differente): l’uranio-238 (99,3%) e l’uranio-235 (0,7%). L’isotopo essenziale per il funzionamento dei reattori nucleari è proprio il secondo, quello più raro, perché è caratterizzato dal fatto di essere fissile, ovvero se colpito da un neutrone “errante” si divide in due parti generando energia. L’uranio-238 invece non è fissile ma fertile, ovvero se colpito da un neutrone può trasmutare in un elemento fissile, in questo caso il plutonio-239.

Alcuni reattori possono funzionare con uranio naturale ma la quasi totalità richiede invece uranio “arricchito” da una percentuale di materiale fissile (uranio-235) pari al 3-5%. Il processo di arricchimento non è semplice e viene in genere ottenuto utilizzando particolari centrifughe.

In un reattore l’uranio, posto in particolari condizioni, si “attiva” avviando una reazione a catena che scinde gli atomi fissili generando grandi quantità di energia termica (calore) e radiazioni. Dopo che gran parte degli elementi fissili sono stati consumati il reattore viene spento e il combustibile sostituito.

Il combustibile esausto, come detto, risulta terribilmente più radioattivo dell’uranio di partenza. Come mai? Perché nel tempo trascorso dentro il reattore il combustibile cambia la sua composizione chimica. In sostanza non si tratta più solo di uranio, ma ci sono anche quantità minori di altri elementi: prima di tutto gli atomi più piccoli e leggeri che rimangono dopo la scissione degli atomi fissili pesanti quando viene prodotta l’energia (prodotti di fissione); poi gli elementi chimici pesanti nuovi formati attraverso i processi di trasmutazione (plutonio e altri attinidi minori). Ovviamente tali elementi non si trovano separati nel combustibile esausto, ma mescolati insieme all’uranio.

Entrambi questi nuovi elementi sono molto radioattivi, in particolare i prodotti di fissione, che pur essendo atomi leggeri sono il risultato di una rottura “violenta” e “forzata” di atomi più pesanti e come tali risultano molto instabili, avendo una forma atomica che normalmente non esiste in natura.

Dove sta il “trucco” di cui si parlava? Prima di tutto l’attività di riciclo del combustibile esausto non è una incredibile novità tecnologica moderna, è una pratica conosciuta da decenni. Lo scopo è quello di separare gli elementi pesanti (uranio, plutonio e attinidi minori) dagli elementi leggeri (prodotti di fissione). L’uranio e il plutonio volendo possono essere riutilizzati in normali reattori come nuovo combustibile (vedi il mox). Il problema è che questo tipo di attività, chiamata riprocessamento del combustibile esausto (reprocessing), è decisamente problematica da gestire e quindi costosa perché prevede di trattare attraverso processi industriali notevoli quantità di materiale altamente radioattivo. Per questo motivo in tutto il mondo solo 5 paesi hanno stabilimenti per riprocessare il combustibile a scopi civili, mentre in altri è addirittura vietato per legge (come negli Stati Uniti).

Il secondo problema è che i prodotti di fissione non possono essere riutilizzati in nessuna maniera, perché sono già il risultato di una scissione atomica e non possono essere fissionati ancora. E come detto i prodotti di fissione sono la componente più radioattiva del combustibile esausto. Addirittura rappresentano la quasi totalità della radioattività nei primi due secoli e rimangono significativamente radioattivi per 5-6 secoli. Questa parte del combustibile sarà sempre un rifiuto radioattivo e nessuna tecnologia di fissione del presente o del futuro potrà mai cambiare la situazione. In proposito vedere sempre quanto indicato in questa pagina.

Nel contesto descritto, ammesso di riutilizzare veramente tutto l’uranio e il plutonio, rimarrebbero poi gli attinidi minori, che continuerebbero comunque ad avere una radioattività significativa per migliaia di anni. Per riutilizzare ed eliminare anche questa componente sarebbero necessari particolari reattori a “neutroni veloci”. Anche questi reattori non sono una novità, esistono da molto tempo, solo che sono sempre stati poco utilizzati perché problematici e costosi da gestire, a partire dal fatto che richiedono, per funzionare in modo efficiente, alte percentuali di materiale fissile presente nel combustibile.

In sostanza, anche ipotizzando di riprocessare il combustibile esausto e di usare un reattore a neutroni veloci per riutilizzare e “distruggere” tutti gli elementi pesanti, quello che si ottiene è una riduzione del volume delle scorie ma non una riduzione della radioattività, che rimane praticamente la stessa a causa dei prodotti di fissione. E’ una “fregatura” della quale tutti quelli che parlano di reattori a fissione miracolosi che funzionano senza produrre scorie o quasi non fanno mai riferimento, chissà perché…

Per finire va detto che nel tempo, alla ricerca di una migliore competitività, i reattori nucleari hanno incrementato la quantità di energia che riescono a tirar fuori da ogni tonnellata di combustibile utilizzato (il cosiddetto burnup). Qui, ad esempio, è possibile vedere l’incremento del burnup nel tempo nei reattori in funzione negli Stati Uniti. Ciò significa che a parità di combustibile utilizzato i reattori di oggi contengono più prodotti di fissione (e quindi più radioattività) rispetto al passato in proporzione all’incremento del burnup. I reattori di ultima generazione che vengono installati nel mondo (quelli di terza+ generazione) ormai raggiungono burnup di 60-70 GWd/t (gigawatt-giorno per tonnellata di combustibile). In rapporto all’energia generata la quantità di prodotti di fissione è la stessa ma in termini assoluti nel singolo carico di combustibile esausto ce n’è di più. In pratica la radioattività del combustibile esausto dei reattori moderni è il doppio di quella di appena 30 anni fa.

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2.2. Esistono comunque i rifiuti radioattivi delle attività mediche

Altro tipico tentativo di sminuire il problema delle scorie radioattive generate dalle centrali nucleari è quello di sostenere che comunque in ogni paese vengono già prodotte grandi quantità di rifiuti radioattivi in relazione alle attività mediche. In realtà anche questo argomento è fasullo.

Per capirlo basta far riferimento proprio all’Italia, che come si sa ha avuto un passato nel quale ha prodotto energia nucleare. Come fonte certa si possono considerare i dati riportati dall’Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la Radioprotezione (ISIN), l’istituto che si occupa appunto di monitorare i rifiuti radioattivi in Italia. Nella pagina dell’Inventario nazionale dei rifiuti radioattivi pubblicato nel 2020 è possibile scaricare un comodo file pdf “Sintesi dei dati” nel quale è riportato il seguente grafico con la ripartizione percentuale dei rifiuti radioattivi in volume:

ISIN volume 2020Come si vede i rifiuti relativi al settore energia (smantellamento, centrali nucleari, ciclo del combustibile) rappresentano il 53,9% del totale, mentre il resto è suddiviso tra settore Medicina e industria (25,5%) e Ricerca (20,6%). Tutto sommato i rifiuti del settore energia sono solo poco più della metà, ma bisogna ricordare che stiamo parlando dell’Italia, un paese che ha prodotto in passato piccole quantità di energia nucleare solo per poco più di 20 anni (vedi i grafici sulla produzione per fonte). In realtà, quindi, il peso è tutt’altro che irrilevante.

Ma c’è di più. Quando si parla di rifiuti radioattivi quello che conta ovviamente non è tanto la quantità del materiale ma la quantità di radiazioni contenute nel materiale. Non tutti i rifiuti sono radioattivi nella stessa maniera. Sempre nello stesso documento precedente è possibile quindi osservare un grafico con la ripartizione dei rifiuti per radioattività emessa:

ISIN attività 2020Ecco così che ben il 96,3% della radioattività risulta derivare dai rifiuti del settore energia. Gli altri rifiuti, soprattutto quelli del settore medico, sono irrilevanti. E ribadiamo che si parla della breve vita del nucleare italiano.

Ma c’è di più. Nel documento a pagina 4 c’è scritto:

Va detto che circa il 99% del combustibile esaurito, utilizzato nelle quattro centrali nucleari nazionali dismesse, non si trova più in Italia. Nel corso degli anni è stato inviato in Francia e in Gran Bretagna, dove è stato sottoposto a riprocessamento. I residui del riprocessamento, secondo quanto stabilito dagli accordi stipulati nel rispetto delle norme comunitarie e internazionali, faranno rientro nel nostro Paese come rifiuti radioattivi.
(…)
Va evidenziato che l’attività dei rifiuti radioattivi che torneranno dall’estero è stimabile in circa 100 volte l’attività totale dei rifiuti radioattivi e del combustibile irraggiato oggi presente in Italia.

Ovvero, una volta che le scorie radioattive torneranno in Italia i rifiuti del settore energia rappresenteranno circa il 99,9% della radioattività totale. Direi che non c’è bisogno di aggiungere altro.

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3. La nucleare è una tecnologia di grande successo

Per convincere le persone che il nucleare rappresenta una buona soluzione per produrre energia, spesso questa fonte viene presentata come di grande successo; tutti la usano, tutti la vogliono. Non è per niente così.

Al 2021 i paesi che hanno reattori commerciali in funzione sono 33, su un totale mondiale di 196 paesi. Di questi, 23 paesi hanno una quota di produzione elettrica nucleare inferiore al 30%, 10 paesi inferiore al 10% (per i dati vedere qui).

Ma l’aspetto più rilevante è che il settore nucleare è in crisi e declino da molti anni.

Il progetto di utilizzare in modo significativo l’energia nucleare è stato avviato durante gli anni ‘60, con l’inizio della costruzione di diverse centrali, in un periodo nel quale molti teorizzavano che i consumi e i prezzi dell’energia sarebbero cresciuti molto più di quello che poi si è realmente verificato. E a quel tempo il nucleare era di fatto l’unica fonte da poter sviluppare in alternativa ai combustibili fossili.

Grazie a questo durante gli anni ‘70-‘80 sono state avviate molte centrali e la produzione nucleare globale è cresciuta. Già all’inizio degli anni ‘90 l’istallazione di nuovi reattori si era comunque ridotta notevolmente e la crescita della produzione ha iniziato a rallentare. Quando durante i primi anni 2000 hanno iniziato a chiudere le centrali più vecchie installate in passato, la produzione nucleare mondiale è andata in un sostanziale stallo, perché quei pochi reattori che venivano costruiti riuscivano a malapena a sostituire i vecchi che venivano chiusi. In questo modo ad oggi (dato 2021) la produzione nucleare lorda nel mondo di 2.800 TWh risulta ancora di poco più bassa di quella del 2006 di 2.803 TWh, che rappresenta per ora il picco di produzione raggiunta. Questo stallo nella produzione assoluta ha fatto si che il peso percentuale del nucleare sul totale della produzione elettrica mondiale sia calato dal 17,4% del 1996 (valore massimo) al 9,8% del 2021. A tal proposito vedere i grafici sulla produzione elettrica mondiale basati sui dati BP statistical review.

In pratica allo stato attuale nessun paese ad economia avanzata del mondo ha più in programma di investire pesantemente sul nucleare come in passato. Nell’Unione Europea attualmente c’è solo un nuovo reattore in costruzione (su 103 in attività), il reattore di Flamanville in Francia (escludendo per decenza due piccoli reattori di epoca sovietica che risultano ancora in costruzione in Slovacchia dal 1987). Anche negli Stati Uniti ci sono solo due nuovi reattori in costruzione (su 93 in attività), i reattori della centrale Vogtle. E in questi due paesi la quasi totalità del parco reattori esistente è vecchio, avviato negli anni ‘70-’80 e progettato per avere una vita operativa standard di 40 anni (anche se spesso viene estesa). Per i dati sui reattori potete vedere il rapporto dell’IAEA del 2022).

Anche osservando i reattori programmati per la costruzione (planned in inglese), ovvero reattori la cui costruzione non è certa ma esiste già un progetto in fase avanzata, la situazione non cambia. In tutta l’UE risultano solo 3 reattori programmati da circa 1.200 MW (uno in Finlandia, due in Ungheria). Peraltro tutti e tre sono basati su tecnologia russa (reattori VVER) e a causa delle vicende legate alla guerra il progetto finlandese è stato sospeso mentre gli altri due sono in dubbio. Negli USA addirittura non c’è nessun reattore programmato.

In sostanza nei paesi ad economia avanzata si sta assistendo ad un progressivo disimpegno dal nucleare, nell’ipotesi peggiore con una chiusura anticipata delle centrali, in quella migliore con il mantenimento delle vecchie centrali per il maggior tempo possibile ma senza avere nessun progetto per sostituirle tutte con delle nuove.

Per capire la situazione basta far riferimento al caso della Francia, il paese più “nuclearizzato” al mondo. Recentemente ha dovuto estendere a 50 anni la vita operativa standard di 40 anni di diversi vecchi reattori perché altrimenti avrebbero già iniziato a chiudere in troppi. Anche ipotizzando che a tutti i vecchi reattori venga concessa la stessa estensione a 50 anni, nel periodo che va da circa il 2030 al 2035 in Francia dovrebbero chiudere ben 35 reattori (avviati tra il 1978 e il 1985) per una potenza complessiva di 33.855 MW. Per i dati vedere questa pagina sul PRIS (cliccando sull’intestazione della tabella potete ordinare i dati).

Attualmente in Francia, come detto, è in costruzione un solo reattore, un EPR da 1.600 MW. Per ora non sono programmati ufficialmente altri reattori ma si sta parlando di proporre la costruzione di altri 6 EPR. Ammesso che questi nuovi reattori siano tutti in funzione entro il 2035 (un’ipotesi ottimistica), la potenza complessiva ammonterebbe a 11.200 MW (1.600*7). In pratica è previsto che solo un terzo della vecchia potenza in dismissione sia sostituita da nuovi reattori. E poi bisogna considerare che sarebbero necessari a breve altri programmi di costruzione di nuovi reattori per compensare almeno in parte la chiusura di tutti gli altri avviati dopo il 1985… La situazione è talmente difficile che ormai è evidente come in Francia su alcuni vecchi reattori sarà per forza di cose necessaria una ulteriore estensione della vita operativa oltre i 50 anni.

Tutto ciò si pone in un contesto nel quale la Francia ha già da tempo deciso di ridurre la propria dipendenza dal nucleare facendo calare la quota di produzione dal 75% al 50% entro il 2035 (già oggi è calata sotto il 70%). Ma con gli attuali programmi di costruzione la quota potrebbe calare anche di più.

A questa situazione poco positiva si aggiunge quella dei paesi ad economia emergente, nei quali il nucleare o è del tutto assente, oppure fatica molto ad imporsi. In paesi “giganti” come la Cina, dove il nucleare è usato da quasi 30 anni, la quota percentuale 2021 del nucleare sulla produzione totale nazionale secondo i dati IAEA è solo ad un misero 5,0%. In India, dove il nucleare è usato da 50 anni, la quota è addirittura del 3,2%. In Brasile, dove usano il nucleare da 40 anni, è al 2,4%.

Negli ultimi anni il settore nucleare è tenuto in piedi in gran parte grazie alla costruzione di reattori in Cina che comunque, come detto, non sta investendo in questa tecnologia con particolare convinzione. I reattori che vengono installati in Cina sembrano molti perché è un paese di grandi dimensioni, ma in realtà si tratta di poca roba. Per capire, negli ultimi 5 anni (2017-2021) in Cina hanno avviato la costruzione in media di 2,4 reattori all’anno; negli Stati Uniti, ai tempi d’oro del nucleare, nel periodo 1974-1978 la media dei reattori di cui iniziava la costruzione era di 13,4 all’anno. Un’enorme differenza. I dati sui reattori possono essere visti sulla pagina del PRIS sezione “Highlights”.

Il fatto è che negli ultimi tempi il contesto per il nucleare è andato addirittura aggravandosi a causa della competizione con le nuove fonti rinnovabili, che vengono viste sempre più, sia dalle economie avanzate che da quelle emergenti, come nuova alternativa per sostituire l’uso dei combustibili fossili. Anche la Cina attualmente sta sviluppando più il settore rinnovabili che non quello nucleare. Basta sapere che nel periodo 2017-2021 in Cina la produzione elettrica rinnovabile è cresciuta di 785,5 TWh, suddivisa tra 134,9 TWh di idroelettrico, 351,0 TWh di eolico, 209,2 TWh di solare e 90,3 TWh di altre fonti. Nello stesso periodo la produzione nucleare è cresciuta solo di 159,4 TWh. Per i dati vedere la BP Statistical Review of World Energy 2022.

In Cina la produzione di una nuova fonte rinnovabile come l’eolico ha già superato quella nucleare nel 2012 e la fonte solare probabilmente lo farà il prossimo anno. In proposito vedere anche i grafici sulla produzione di energia elettrica cinese.

Il risultato è che sebbene gli investimenti cinesi abbiano contribuito a risollevare leggermente il settore nucleare rispetto ai primi anni 2000, l’avvio della costruzione di nuovi reattori a livello mondiale rimane basso, mentre nel frattempo le chiusure dei reattori più vecchi crescono in funzione del picco di installazioni avuto negli anni ‘70-’80. Per capire la situazione basta osservare il seguente grafico che riporta la potenza netta dei reattori di cui è iniziata la costruzione, avviati e chiusi per ogni anno dal 1963:

Potenza nucleare implementata e dismessa nel mondoSi nota bene quanto detto in precedenza sul fatto che le installazioni recenti sono ben inferiori a quelle del passato. Come si vede il picco nella costruzione di nuovi reattori si è avuto a metà anni ‘70.

Si nota anche la progressiva crescita delle chiusure dei reattori negli ultimi anni e come invece, con uno sguardo al prossimo futuro, i reattori di cui inizia la costruzione non crescono e ormai sono praticamente allo stesso livello delle chiusure. E’ evidente che con queste tendenze il futuro del nucleare è tutt’altro che roseo.

Peraltro è interessante notare come il grave incidente di Chernobyl del 1986, che con il suo impatto negativo sull’opinione pubblica viene comunemente considerato la causa principale del declino del nucleare nel mondo, in realtà non ha avuto nessun effetto sull’andamento delle nuove costruzioni (il dato più rilevante), che era già in calo da diversi anni. In pratica la fase di declino era già iniziata prima.

I dati del grafico sono tratti dalla già citata pagina del rapporto IAEA 2022 sui reattori nel mondo selezionando il pulsante “Supplementary data” e scaricando i dati della tabella 7 e 16.

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4. Solo con il nucleare si può eliminare completamente l’uso dei combustibili fossili

Quando sono a corto di argomenti i sostenitori del nucleare affermano che le nuove fonti rinnovabili, come eolico e solare fotovoltaico, essendo variabili e non programmabili (ovvero la produzione non può essere controllata in base alle necessità) non sono in grado di eliminare completamente l’uso dei combustibili fossili, in quanto nei momenti in cui la produzione è minore rispetto alla domanda di energia, questa deve essere fornita da altri impianti programmabili che funzionano come “backup”. Oltre all’idroelettrico, i tipici impianti di produzione programmabili e dotati della necessaria flessibilità per poter compensare le variazioni delle fonti rinnovabili, sono in genere proprio quelli termoelettrici basati su combustibili fossili.

Va chiarito, quindi, che queste caratteristiche non impediscono alle nuove fonti rinnovabili di sostituire gran parte della produzione fossile, ma rendono sicuramente più complicata la situazione quando si vogliono coprire percentuali elevate, che tendono al 100%. In un tale contesto il backup dovrebbe essere fornito da impianti che utilizzano energia rinnovabile accumulata durante gli eccessi di produzione. Con le tecnologie attuali questo ruolo può essere svolto ad esempio dai pompaggi idroelettrici, dalle batterie e dall’accumulo dell’energia in forma “chimica”, come l’idrogeno.

I sostenitori dell’atomo sostengono che tale approccio sia impossibile e che quindi le rinnovabili avranno sempre bisogno del supporto di impianti che utilizzano altre fonti di energia, seppur in quantità modeste. In base a questo ritengono che l’unico modo per fare completamente a meno dei combustibili fossili sia usare le centrali nucleari.

In pratica la soluzione proposta prevederebbe che sia il nucleare ad affiancare le rinnovabili facendo da backup quando necessario. In realtà, però, c’è un grosso problema. Come detto in precedenza, gli impianti di backup oltre ad essere programmabili devono anche necessariamente essere flessibili per adattarsi alle variazioni della produzione rinnovabile. Il nucleare, invece, rappresenta proprio la tipica fonte di produzione rigida, ovvero la potenza erogata è costante e poco modulabile.

Tale rigidità non deriva tanto da questioni tecniche (che comunque in parte minore esistono) ma da questioni economiche. Il nucleare è una tecnologia caratterizzata da alti costi fissi iniziali d’impianto e bassi costi operativi variabili (ovvero associati alla produzione). Con una tale struttura di costi qualsiasi impianto sarà sempre utilizzato alla massima potenza in modo da ottenere la maggiore produzione possibile. Infatti grazie ai bassi costi variabili produrre un’unità di energia in più costa poco (bassi costi marginali) e questo consente di ottenere sempre sufficienti margini lordi di profitto con il prezzo di vendita sul mercato. Tali margini lordi sono poi indispensabili per riuscire a coprire gli alti costi fissi d’impianto.

In sostanza, le centrali nucleari costano molto e quindi per riuscire a recuperare tali costi devono produrre e vendere molta energia. Questa rigidità e costanza di produzione la si riscontra negli elevati fattori di capacità raggiunti tipicamente dalle centrali nucleari, con valori intorno al 90% (ovvero le centrali funzionano alla massima potenza nominale per il 90% del tempo).

Come visto in precedenza al punto numero 1, nonostante questi alti livelli di produttività gli impianti nucleari faticano ad essere competitivi con le altre tecnologie. In tal senso risulta evidente come l’idea di utilizzare il nucleare in modo flessibile, riducendo la produzione per adattarsi a quella variabile delle rinnovabili, sia una cosa assurda, perché la minore produttività farebbe ulteriormente salire i costi dell’energia prodotta.

La rigidità del nucleare è tale che addirittura non viene utilizzato neanche per seguire le normali variazioni giornaliere della curva di carico, quando la richiesta di energia passa da un minimo notturno ad un massimo diurno. Anche in questo contesto la produzione nucleare viene mantenuta più o meno fissa, mentre sono altre fonti (più flessibili) a sobbarcarsi l’onere di modulare la produzione per seguire il variare del carico giornaliero. Per verificarlo basta far riferimento proprio al paese più “nuclearizzato” al mondo, la Francia, che nonostante tutto ha sempre dovuto far affidamento nel proprio mix di generazione elettrica su oltre un 20% di fonti flessibili, idriche e termiche fossili. Vedere il seguente grafico tratto da Wikipedia:

Produzione elettrica fonti francia percentualiIn teoria niente avrebbe dovuto impedire alla Francia di ottenere un 100% o quasi di produzione da nucleare, ma in realtà è impossibile, proprio perché il nucleare non è in grado di seguire il carico e servono altre fonti lo facciano al suo posto. Addirittura, l’apparato rigido di produzione nucleare francese, che da molto tempo copre una quota del 70-75%, è sovradimensionato rispetto al funzionamento ideale, come dimostrano le notevoli esportazioni di energia che sono costretti a fare (al contrario di quanto molti pensano tali esportazioni più che volontarie sono necessarie e non sono un aspetto positivo). In Francia, inoltre, sono fortunati ad avere le Alpi e quindi una buona produzione idroelettrica ad invaso (ovvero programmabile), altrimenti la quota di fonti fossili necessarie sarebbe stata maggiore.

Per avere una più chiara conferma della situazione francese è possibile fare riferimento ai valori orari di produzione delle varie fonti riportati dal gestore della rete di trasmissione in questo sito. Ad esempio, dal 9 all’11 marzo 2021 abbiamo avuto questa situazione:

Produzione elettrica oraria fonti franciaCome si vede, oltre alla normale variazione del carico da notte a giorno si aggiunge anche una variazione in incremento della produzione eolica (in celeste). In un tale contesto la produzione nucleare rimane quasi invariata:

Produzione elettrica oraria nucleare franciaLa produzione da gas naturale mostra invece una notevole diminuzione in corrispondenza della maggiore produzione eolica:

Produzione elettrica oraria gas franciaLa produzione idrica mostra sia una variazione infra-giornaliera che una riduzione per compensare la produzione eolica:

Produzione elettrica oraria idro franciaUn certo contributo lo danno anche i sistemi di accumulo come i pompaggi idroelettrici:

Produzione elettrica oraria pompaggi franciaInfine, la parte più grande del lavoro di compensazione viene svolta dalle esportazioni di energia:

Produzione elettrica oraria esportazioni franciaAnche in un contesto così dinamico viene confermato, quindi, che la nucleare è una tecnologia di produzione decisamente rigida e che tutto il lavoro necessario per seguire il carico giornaliero e la variabilità delle fonti rinnovabili viene svolto da altri sistemi più flessibili, come il termoelettrico a gas, l’idroelettrico, gli scambi di energia con l’estero e gli accumuli.

Risulta evidente, quindi, come l’utilizzo del nucleare non solo non risolve la necessità di utilizzare fonti flessibili di backup (anche fossili), ma rischia addirittura di diventare un problema nel caso di elevata presenza di fonti rinnovabili non programmabili (che nell’esempio precedente sono ancora tutto sommato basse). Infatti a causa della sua rigidità la produzione nucleare rischia di essere “ingombrante” e di richiedere meccanismi di compensazione aggiuntivi per la sua gestione. Ad esempio, se la produzione rinnovabile non programmabile aumenta ed ho una certa produzione rigida nucleare, i sistemi flessibili (che si tratti di impianti di produzione, di accumuli o di scambi con l’estero) dovranno inevitabilmente occuparsi di compensare entrambi.

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5. Il nucleare è sicuro

Altro argomento molto delicato sul quale i fanatici pro nucleare si danno un gran daffare a cercare di convincere tutti è quello della sicurezza. La nucleare è una tecnologia sicura?

Una prima risposta viene dall’evoluzione stessa dei progetti di costruzione delle centrali nucleari che nel tempo hanno visto aggiungersi nuove strutture di contenimento intorno al reattore e vari sistemi di sicurezza attivi e passivi. Possiamo dire quindi che di base il funzionamento di un reattore è sicuramente qualcosa di rischioso, sia per il suo contenuto, che come abbiamo visto al punto 2 può essere enormemente radioattivo, sia per le caratteristiche della reazione di fissione stessa che non è proprio facile da controllare. L’evoluzione dei progetti delle centrali ha cercato di ridurre tale rischio senza riuscire comunque a portarlo a zero.

Per capire quanto un reattore a fissione sia qualcosa di intrinsecamente problematico da gestire basta sapere che la reazione di fissione a catena sulla quale si basa la produzione di energia nucleare è talmente rapida che non è controllabile dalla tecnologia umana. La produzione di energia dalla fissione avviene quindi usando un “trucchetto”.

Senza entrare troppo nel dettaglio, la reazione a catena si basa sul fatto che un atomo di materiale fissile presente nel reattore se colpito da un neutrone errante si divide in due generando energia, radiazioni e rilasciando altri neutroni che vanno a colpire altri atomi fissili. Ecco, questa reazione a catena autosostenuta (definita stato critico) che avviene nell’ambito dei materiali fissili non è controllabile dalla tecnologia umana perché è troppo rapida. Per renderla controllabile si sfruttano quindi dei neutroni rilasciati dai prodotti di fissione con un ritardo maggiore rispetto ai neutroni rilasciati dalla fissione. Si tratta dei cosiddetti neutroni tardivi (delayed neutrons), che si differenziano invece dai neutroni immediati generati dalla reazione di fissione (prompt neutrons).

In pratica raggiungere una reazione a catena autosostenuta (stato critico) usando l’uranio o altri materiali fissili non è possibile perché la reazione sarebbe troppo rapida e quindi incontrollabile. Il combustibile quindi in realtà viene lasciato in stato sub-critico e la reazione a catena viene garantita solo grazie ai neutroni tardivi generati dai prodotti di fissione. Tale situazione è spiegata bene su Wikipedia in inglese:

If a nuclear reactor happened to be prompt critical – even very slightly – the number of neutrons would increase exponentially at a high rate, and very quickly the reactor would become uncontrollable by means of external mechanisms.
(…)
However, thanks to the delayed neutrons, it is possible to leave the reactor in a subcritical state as far as only prompt neutrons are concerned: the delayed neutrons come a moment later, just in time to sustain the chain reaction when it is going to die out. In that regime, neutron production overall still grows exponentially, but on a time scale that is governed by the delayed neutron production, which is slow enough to be controlled.

Tutta questa divagazione tecnica serve a far capire che il funzionamento dei reattori nucleari è per sua natura problematico e “delicato” da gestire perché alla base c’è un fenomeno che non è direttamente controllabile dalla tecnologia umana. L’utilizzo dei neutroni tardivi è un espediente che consente di mantenere il reattore in uno stato sub-critico e quindi controllabile ma sapendo sempre che in caso di errore o malfunzionamento il tutto degenera velocemente verso un inevitabile disastro. Chi vuole approfondire l’argomento può leggere questo articolo su Wikipedia sulla “Prompt criticality”, ovvero quando il reattore raggiunge lo stato critico utilizzando solo i neutroni immediati (prompt neutrons).

Ma cosa succede se la reazione a fissione “scappa di mano” a causa di una “prompt criticality”?

Succede che viene generata una enorme quantità di calore (e radiazioni) che può fondere tutto o parzialmente il combustibile dentro al reattore e nei casi più gravi può forare il contenitore in acciaio e anche la struttura di contenimento in cemento armato. Questo senza considerare che il suddetto intenso calore può provocare violente esplosioni a causa della pressione del vapore o a causa della produzione di idrogeno (che può incendiarsi). Nel caso di Chernobyl il reattore saltò letteralmente per aria.

Da chiarire che sebbene il principio fisico alla base del funzionamento dei reattori nucleari sia lo stesso delle bombe atomiche, il raggiungimento di una criticità immediata non porta ad una enorme esplosione tipo fungo atomico. Questo perché le bombe atomiche sono progettate appositamente per liberare tutta l’energia contenuta nel materiale fissile nel più breve tempo possibile, mentre nel progettare i reattori si cerca di ottenere l’effetto opposto. Nel caso avvengano, quindi, si parla di esplosioni ben più piccole, in grado di danneggiare direttamente solo l’edificio della centrale e quelli vicini.

Nonostante ciò, il verificarsi di un incidente nel quale si perde il controllo della criticità del reattore (incidente di criticità) porta quasi sempre all’emissione di radiazioni nell’ambiente, particolarmente gravi se il contenitore in acciaio e le strutture di contenimento in cemento vengono danneggiate.

Se tutto ciò non bastasse, bisogna anche ricordare che un reattore nucleare può essere problematico da gestire anche da spento. Infatti, come già detto in precedenza, un combustibile usato contiene i prodotti di fissione e altri elementi minori che sono molto radioattivi e quindi che emettono molto calore. Si tratta di un calore ovviamente inferiore a quello generato durante lo stato critico, ma si tratta di un calore persistente nel tempo e quindi in grado comunque di provocare danni simili.

Ricordiamo che quello di Fukushima è stato proprio un incidente di questo tipo. I reattori erano spenti e i danni sono stati provocati solo dal calore di decadimento radioattivo del combustibile usato a causa di un malfunzionamento dei sistemi di raffreddamento. Il risultato è che il combustibile fuso è riuscito a bucare il contenitore in acciaio e pare anche a danneggiare parzialmente il contenimento in cemento. Ci sono state anche diverse esplosioni causate dall’idrogeno.

In pratica alla fine i possibili problemi derivano tutti da una mancanza di adeguato raffreddamento del reattore, o perché si perde il controllo della reazione di fissione (calore in eccesso rispetto al normale), o perché anche durante il funzionamento normale e addirittura da spento il calore non viene smaltito dai sistemi di raffreddamento per guasti ed errori.

Ritornando alla solita domanda: ma il nucleare quindi è sicuro?

Come abbiamo visto finora la nucleare è una tecnologia intrinsecamente delicata e problematica da gestire e quindi può essere ragionevolmente sicura solo se vengono previsti adeguati sistemi di controllo e sicurezza e questi sistemi sono in grado di funzionare correttamente. Anche se le moderne centrali hanno questi sistemi di sicurezza, rimane il fatto che la produzione di energia nucleare viene sempre classificata come un’attività a rischio che richiede una particolare attenzione.

Non a caso quando si realizzano contesti difficili come guerre, terrorismo o disastri naturali, le centrali nucleari in genere sono le prime attività che vengono fermate per questioni di sicurezza. Caso emblematico e recente è lo spegnimento totale dei reattori della centrale nucleare di Zaporizhzhia in Ucraina, minacciata più volte di essere bombardata a causa della guerra.

Da notare come la necessità di riallacciare le linee elettriche alla centrale non dipenda dalla volontà di riaccendere presto i reattori per produrre energia ma, al contrario, dipenda dalla necessità di portare energia alla centrale per alimentare i sistemi di raffreddamento dei reattori spenti che, come detto in precedenza, rappresentano un grosso problema. Vedere quanto riportato qui:

One of the Russian-held Zaporizhzhia nuclear power plant’s four main power lines has been repaired and is once again supplying the plant with electricity from the Ukrainian grid two weeks after it went down, the U.N. nuclear watchdog said on Saturday.

Even though the six reactors at Zaporizhzhia, Europe’s biggest nuclear power plant, have been shut down, the fuel in them still needs cooling to avoid a potentially catastrophic meltdown. That means the plant needs electricity to pump water through the core of the reactors.

A questo punto qualcuno potrebbe far notare come all’atto pratico in 60 anni di utilizzo commerciale dell’energia nucleare di gravi incidenti alla fine ce ne sono stati pochi. Infatti, come si sa, gli incidenti più gravi che hanno coinvolto centrali nucleari commerciali sono stati tre: Three Mile Island (1979); Chernobyl (1986); Fukushima (2011).

Il problema di questa affermazione è che non tiene conto di quanto poco sia importante la produzione nucleare rispetto ai consumi di energia globali. Come si può ben vedere dai grafici sul consumo mondiale di energia primaria per fonte, la produzione di energia nucleare negli ultimi 60 anni ha coperto in media solo circa il 4% dei consumi. In sostanza, gli incidenti nel mondo sono stati pochi, ma anche la produzione in realtà è stata poca. Se in passato fossero state fatte scelte diverse, ipotizzando una diffusione del nucleare molto più massiccia, anche gli incidenti sarebbero stati molti di più. Ad esempio, ipotizzando di far produrre al nucleare il 40% dell’energia mondiale, circa 10 volte la quota effettiva, si può supporre che anche gli incidenti registrati si sarebbero incrementati di circa 10 volte, ovvero nel tempo avremmo avuto 10 incidenti tipo Three Mile Island, 10 tipo Chernobyl e 10 tipo Fukushima. Oggettivamente, con questa massa di incidenti non so quanti avrebbero considerato ancora la nucleare una tecnologia affidabile e sicura da utilizzare…

 

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